“E’ come un gatto!” sentenzia la bimba, mentre segue con gli occhi gli slanci del felino. Già, per lei, istintivamente, anche ciò che è animale feroce richiama a quello più domestico e di compagnia. Dovrei imparare anch’io da questa banale osservazione a ricondurre le negatività e le cattiverie della vita a ciò che c’è comunque e sempre in positivo da qualche parte, ma se guardo alle ingiustizie subite dalla bimba, questo passaggio mi risulta ancora difficile.
“E’ un gatto che insegna a te come rana a saltare sempre più un alto dei
tuoi limiti, a sforare il cielo, come sta facendo lui con questi balzi!”; e lei
mi si rivolge meravigliata: “Guarda che non si può forare il cielo: non è un
muro o una gabbia…” e scuote la testa. Già, anche in questo caso, è lei che mi
riporta con i piedi per terra, richiamandomi nei miei limiti e nelle
possibilità che non devono andare troppo oltre, e non certo oltre il cielo. E’ ancora il simbolo anfibio che le
insegna a vivere, per quello che le è possibile, tra la terra e il cielo con un
certo equilibrio e un po’ di serenità.
Ma il ghepardo, in effetti, alla fin fine, nella sua naturalità, non è
altro che un gatto. Mentre l’umano usa ferocemente i suoi artigli a scapito
dell’altro, piombando improvvisamente di sorpresa e straziando i suoi progetti,
i suoi affetti e le sue attese. E’ successo anche alla bimba che a sue spese ha
condiviso un percorso accanto a un gatto – così lei lo riputava – che si è
trasformato in un diabolico ghepardo. E qui, l’umano, come sempre in negativo,
supera in male, in malizia e in astuzia ogni mossa del ghepardo, generando da
sé la figura di un gattopardo.